La petizione contro i dazi sul vino italiano negli Usa parte da Menfi

Redazione

3.000 firme nel giro di poche ore a sostegno della petizione lanciata da Marilena Barbera, Michele Antonio Fino e Gianluca Morino  contro i dazi sul vino italiano decisi da Trump negli Usa (che trovate qui dove potete anche firmarla). 

Qui di seguito Gherardo Fabretti sul sito di AIS Italia spiega cosa sta succedendo:

Anno bisesto, anno funesto, recita il proverbio. E in effetti il 2020, almeno per il mondo del vino italiano, minaccia sventura. Nulla di certo ancora, ma le nuvole provenienti dalla Casa Bianca continuano ad addensarsi, e tra una settimana rischiano di tramutarsi in una doccia gelata. L’ipotesi di un’amministrazione Trump pronta ad applicare dazi del 25% sull’importazione di vino italiano come parte della rappresaglia contro l’Unione Europea, infatti, è concreta.

La guerra commerciale

Prima dell’arrivo di Trump, gli USA, tra i membri del G20, erano tra i paesi con i dazi medi più bassi: un 3,36% zompato al 5,67% con l’imposizione di dazi al 25% su 250 miliardi di import cinese. Un aumento, comunque, non paragonabile a paesi come Brasile, Argentina e la Cina stessa. L’Europa, di contro, pur dimostrandosi tra le aree più disponibili al libero scambio, applica dazi decisamente alti in settori peculiari, e in particolare sui prodotti agricoli (>15%) e sulle automobili (10%). Proprio beni agricoli e automobili sono i settori sui quali il presidente americano accusa la UE di turbare la bilancia commerciale (quasi 140 miliardi di euro di passivo USA nel 2018), giustificando così parte della propria guerra daziaria. “Questa però è una visione parziale” – dicono Alberto Belladonna e Alessandro Gili dell’ISPI –  perché non tiene conto del fatto che il mercato americano è dominato dal segmento SUV e pick-up, per il quale gli USA applicano invece un dazio del 25%. In realtà la media dei dazi europei nei confronti di quelli statunitensi è più bassa, tanto sui beni agricoli (6,8% vs 13,8%) quanto su quelli non agricoli (3,9% vs 4,4%).

Airbus VS Boeing

Il secondo e più infuocato pretesto di scontro tra Washington e la UE è l’accusa di supporto alle rispettive industrie aeronautiche, e in particolare alla statunitense Boeing e all’europea Airbus. Una lunga guerra di ricorsi che nel 2005 ha visto la WTO, l’Organizzazione mondiale del commercio, fondata nel 1995 per supervisionare e regolamentare gli accordi commerciali tra i 164 stati membri, condannare gli USA per uso distorsivo dei sussidi e nel 2018 la UE per finanziamenti incompatibili con le regole del WTO stesso. Da parte sua, Trump non ha mai nascosto la sua insofferenza per l’organizzazione, muovendosi spesso in aperta violazione delle procedure e tentando di ridurne le prerogative, nonostante le statistiche di vittoria propendano a favore degli States.

Le barriere non tariffarie

Il terzo punto di scontro tra USA e UE, poi, sono le barriere di natura non tariffaria opposte vicendevolmente: ostacoli di natura tecnica, amministrativa, legislativa e fitosanitaria. Se è vero che gli USA ne fanno maggior ricorso durante le dispute col WTO, occorre tener presente che attraverso varie regolamentazioni l’Unione introduce, de facto, ostacoli tecnici e fitosanitari che non vengono necessariamente comunicati agli organi competenti del WTO – continuano Belladonna e Gili.

E il vino?

Nell’ultima guerra daziaria di Trump, pubblicizzata come contromisura necessaria a punire i sussidi pubblici erogati a favore di Airbus, i settori dei prodotti alimentari e delle bevande sarebbero tra i più danneggiati, coinvolgendo circa l’81% delle esportazioni di bevande e il 75% di quelle alimentari. Le nazioni più duramente colpite, fino ad ora, sembrerebbero Francia, Spagna e Germania, forse perché l’Italia non è coinvolta nella produzione di aerei della Airbus, ma il 14 gennaio le cose potrebbero cambiare. La minaccia di una applicazione di dazi fino al 25% sul prezzo della merce dichiarata in dogana, unitamente al divieto di immissione negli USA di campioni di prova a titolo gratuito, potrebbe coinvolgere anche l’Italia, e il suo vino. La prima conseguenza? Un aumento algebrico dei costi lungo tutta la filiera, dagli importatori ai distributori, dai gestori di enoteche, supermercati e ristoranti fino ai consumatori finali. La seconda? Una inesorabile ricerca di nuovi canali di vendita fuori dagli USA, la perdita di miliardi di entrate e l’inevitabile chiusura di attività in entrambi i Paesi.